Took a Knee: quando prendere posizione diventa pericoloso
– Dalla rubrica di Giulio Zoppello, “The Web Monitor –
Oggi per le star dello sport, prendere posizione politicamente è molto più difficile di ieri.
Le recenti proteste negli Stati Uniti (propagatesi poi nel resto del mondo) inerenti le discriminazioni razziali, hanno trovato subito un grande appoggio e condivisione da parte di numerose star dello sport.
Il ginocchio posato a terra con il pugno levato in aria, è sicuramente un gesto di protesta che farà la storia, tuttavia ad uno sguardo maggiormente attento, si nota come in realtà, negli ultimi anni, prendere posizione, essere impegnati nel sociale, esprimere un’opinione politica per chi è famoso, soprattutto per gli atleti, sia sempre più rischioso.
Certo non è un caso isolato, e non si deve pensare che nel passato fosse più semplice., tuttavia vi erano delle grosse differenze nel legame tra sport e politica.
I “bravi negri”.
Nell’era dei totalitarismi, sportivi come Primo Carnera, Max Schmelling, Ondina Valla e tanti altri, furono utilizzati loro malgrado come “ambasciatori” da Italia e Germania, e la stessa cosa successe con chi gli era contrapposto.
Max Baer (pugile di origine ebraica) quando sconfisse Carnera, e Joe Louis quando sconfisse oltre all’italiano anche Schmelling, diventarono i pugili che combattevano il nazi-fascismo, così come Jesse Owens vincendo a Berlino ’36, l’uomo che “sconfisse Hitler”.
Questa almeno la percezione, poi nella realtà Owens ebbe solo parole di stime per il dittatore e per come era stato trattato in Germania, e Joe Louis fu idolatrato perché era visto come un”bravo negro” al contrario di gente come Jack Johnson, primo campione afroamericano dei pesi massimi, donnaiolo e guascone, spirito libero. Louis era timido, riservato, religioso.
La percezione è data dal momento, dall’occasione che si crea, da ciò che crede la maggioranza. Valeva ieri, vale oggi. E conta anche CHI lo fa ed in che modo.
Ecco perché Jackie Robinson, primo asso del baseball di colore, ebbe tutt’altro trattamento negli stadi dove portò il suo talento ad inizio carriera, e dovette aspettare l’aiuto dei compagni di squadra per veder cambiare le cose. Fu durante il match contro Philadelphia, quando l’allenatore avversario Ben Chapman cominciò ad insultarlo, che il compagno di Robinson, Eddie Stanky reagì con veemenza. Fu il primo segnale di qualcosa che stava cambiando.
Floyd Patterson, Campione dei Pesi Massimi dal 1956 al 1962, era un afroamericano timido, religioso, che si vestiva bene ed era indicato, come Louis, come “un orgoglio per la sua razza” da parte dei bianchi. Perché “stava al suo posto”. E lo sostennero anche contro lo svedese e biondissimo Ingemar Johansson.
Il fatto che appoggiasse Martin Luther King era in un certo senso accettato, visto come qualcosa di normale, di coerente, non ebbe mai grossi problemi dall’opinione pubblica o dalla legge.
L’uomo che lo batté, Sonny Liston, donnaiolo, amante del jazz, della vita notturna, invece non fece mai nulla per il Movimento dei Diritti Civili, ma in compenso fu sovente arrestato senza motivo, perseguitato, perché non stava alle regole che i bianchi avevano stabilito per la sua sfera privata.
E Cassius Clay, quando diventò Muhammad Alì, sancì un rapporto tra politica, impegno civile e opinione pubblica assolutamente senza precedenti ancora oggi.
The Greatest
“Nessun Vietcong mi ha mai chiamato negro” fu solo la punta di un iceberg che era strutturato sull’adesione ai Black Muslims, sul parlare, parlare sempre, parlare comunque, della società, dei neri, dei bianchi, delle ingiustizie, sul rendere lo sport per la prima volta qualcosa di manifestamente politico.
Si è molto parlato di quanto egli fu osteggiato dai vertici politici e federali, uomini bianchi al potere, FBI, ma non di quanto una bella fetta dell’opinione pubblica più conservatrice e anche molti
afroamericani gli andassero contro, persino atleti di punta come Bob Foster, Ernie Terrell, Wilt Chamberlain, che non condividevano il suo schierarsi politicamente.
Ex Campioni dei Pesi Massimi (e razzisti conclamati) come Jack Dempsey e Gene Tunney (veterano della prima guerra mondiale), dopo il suo rifiuto ad andare in Vietnam gli spedirono lettere in cui lo definivano “una vergogna per la sua razza”.
E ogni avversario che ebbe di fronte (su tutti Joe Frazier e Ken Norton) fu salutato suo malgrado dalla parte conservatrice d’America come il beniamino, visto che di bianchi in grado di batterlo non ve ne erano.
Al suo rientro dall’esilio, Jerry Quarry, irlandese cocciuto e talentuoso, fece uscite poco felici sugli afroamericani, generò un clima da “guerra civile” tra nord e sud, a seguito del quale Alì fu sommerso da minacce di morte, furono esplosi colpi nell’Hotel in cui alloggiava. Il clima era pesante.
Giusto per ricordare che The Greatest, pagò un prezzo enorme per il suo impegno e no, ebbe contro una bella fetta di America.
Took a Knee
Più o meno la stessa cosa che è successa nel 2016 a Colin Kaepernick e Eric Reid, giocatori di Football dei San Francisco 49ers, i primi (ispirati dall’ex giocatore e Berretto Verde Nate Boyer) a creare il famoso “Took A Knee”, il ginocchio piegato in segno di protesta durante l’inno americano, prima di un match ufficiale.
I due si esibirono in quel motto di protesta, contro le morti ingiustificate provocate dai poliziotti sulle minoranze.
Era appena salito alla Casa Bianca Donald J. Trump, ed il clima era incandescente per lo strizzare l’occhio al suprematismo bianco da parte del GOP, per la rinascita di un’atmosfera che pareva relegata agli anni 50, gli anni di Rosa Parks.
La NFL, industria sportiva di intrattenimento per eccellenza, fu assalita sui social da decine di migliaia di supporters di Trump, scatenati dai post su Twitter e Faebook di un Presidente che chiedeva che chi non “omaggiasse” Stars & Stripes venisse licenziato, in quanto “dipendente di un’azienda privata”.
Il risultato fu un’escalation di tensione, con star dello spettacolo e soprattutto dello sport (LeBron James e Serena Williams su tutti), che imitarono il gesto di Kaepernick, mentre la dirigenza NFL cercava di mediare tra due posizioni inconciliabili.
Ed alla fine il Presidente Roger Goodell aveva chiesto addirittura scusa per la protesta di Koepernick.
La maglia di Kaepernick fu bruciata in diverse manifestazioni della destra americana, ed infine la NFL decise che invece di piegare il ginocchio fosse meglio non partecipare all’inno per non “urtare la sensibilità” di quella parte dl pubblico che non condivideva l’azione.
Motivo per cui oggi Goodell è ampiamente criticato. E dall’epoca di Alì eran passati quarant’anni…
Gli assalti sui social
Kaepernick e tutti gli altri che lo imitarono, furono oggetto di attacchi molti forti sui social, moltissimi tifosi boicottarono i club e chiesero a gran voce per mezzo social che gli atleti fossero licenziati o sanzionati.
L’elemento social (un contatto diretto tra “massa” e vertici”) non esisteva al tempo di Alì o John Carlos e Tommie Smith, i due del pugno guantato di nero alle Olimpiadi di Messic ’68. Forse il gesto di protesta più famoso di sempre. E che a loro, come all’australiano Peter Norman (anche lui sul podio) costò una vita di umiliazioni da parte dei vertici.
Nel loro caso dal “basso”, ci si “limitava” a telefonate minatorie, lettere con minacce di morte ma il pericolo era soprattutto “dall’alto”, una marea di persecuzioni da parte di federazioni, dei potenti…oggi non c’è solo questo, oggi internet permette un “contatto” molto più diretto, con rischi
non da nulla.
Anche perché oggi, lo sport è prodotto molto più di ieri, per le federazioni, gli sponsor, tutto il circo mediatico e di affari, prendere posizione in un momento difficile o scomodo vuol dire perdere soldi. Tanti soldi. La Nike per le proteste sul caso Kaepernick perse un bel po’ di soldi Le critiche sui social, il gradimento interattivo, sono armi molto pericolose, di cui uno sportivo oggi deve tener conto.
Sinisa e lo Zar
Noi abbiamo esempi poco lusinghieri in questo senso. Basti pensare a Sinisa Mihjailovic, allenatore del Bologna che sta combattendo una coraggiosa battaglia per la vita, e ad Ivan Zaytsev, opposto della Nazionale e fino a poco tempo fa di Modena.
Il primo aveva espresso simpatie per Salvini e la candidata alle Regionali dell’Emilia Bergonzoni, il pallavolista al contrario sosteneva Bonaccini, si era mobilitato a favore dei migranti e soprattutto si era espresso favore del movimento delle Sardine.
Ed entrambi per le loro idee, per averle palesate, sono stati attaccati in modo pesantissimo sui social, a Sinisa dicendogli di farsi curare in un’altra regione e addirittura augurandogli la morte, a Zaytsev ripetendo l’insulso motto per il quale“uno sportivo non si occupa di politica” e che nel farlo avesse causato una “divisione” in seno allo sport italiano.
Il che è straordinario se si pensa che l’elenco di sportivi impegnati in politica comprende moltissimi altri casi, basti pensare al mitico Socrates, fuoriclasse del pallone carioca, creatore della Democratia Corinthiana, primo fulgido esempio di resistenza contro la dittatura militare.
Poi vi sono i casi di Bill Russell, Kareem Abdul Jabbar, Arthur Ashe, Jim Brown, George Weah, Lucarelli e tanti altri, che si sono impegnati, schierati e mai hanno fatto mistero delle loro convinzioni.
Il populismo all’assalto
Oggi invece a Zaytsev e Sinisa si dice che no, gli sportivi non fanno politica, che poi è la stessa accusa o perentorio monito fatto ai cantanti, attori o registi che si sono schierati, indicati come “ricchi viziati ed ingrati” verso il loro “popolo” e connazionali.
Il caso vuole che quasi sempre tale critica arrivi da una certa parte dell’elettorato, quello più schierato a destra e populista, fautore di “verità alternative” e “complottismi vari”.
Un paradosso? Fino ad un certo punto. Piuttosto una conferma dell’intolleranza ed assoluta mancanza di logicità che i social possono rovesciare addosso a chi prende posizione e, guardando un documentario come The Last Dance, i Chicago Bulls, forse si capisce perché a suo tempo Jordan non si sia mai azzardato a farlo. Almeno fino ad oggi, visto che poche settimane fa assieme alla Nike, ha donato qualcosa come 100 milioni di dollari contro il razzismo.
Ma è ora, ora che l’onda sta salendo, ora che il mondo è diviso in pro o contro, tra chi abbatte o distrugge statue di Colombo, Leopoldo II e chi invece rinfaccia la mancanza di “spirito patriottico” o simili.
Altri esempi? Beh il nostro calcio ne ha forniti due con pochi pari: Claudio Marchisio, simbolo della Juventus del calcio italiano del nuovo millennio, si era schierato dalla parte dei rifugiati.
La reazione non si è fatta attendere: “Buonista”, “facile parlare e fare i moralisti quando si è milionari”, “pensa a giocare”.
Pochi giorni fa Lukaku dopo aver segnato contro la Sampdoria ha (come molti altri in questo periodo) fatta sua l’esultanza connessa alle proteste, al Black Lives Matter: ginocchio piegato, capo reclinato, pugno al vento.
“Esibizionismo telecomandato”, “avrebbe dovuto aiutare gli italiani impoveriti” la solita corsa all’inciviltà, al razzismo mascherato da sensibilità verso “poveri più poveri degli altri”, alla rabbia eversiva che oggi, sui social, ha libero sfogo verso chi ha la malaugurata idea di andare oltre i confini nazionali.
Ma è interessante notare a questa rabbia, ormai si risponde sempre più a tono, quasi vi fosse una sorta di volontà di rivalsa, di diritto all’opinione e presa di posizione da parte dei personaggi pubblici, sempre meno disposti al cerchiobottismo o al silenzio.
Tirare fuori i denti
Gregg Popovich, coach dei San Antonio Spurs ha fatto tremare i media USA in questi giorni, dando dell’ipocrita e del pavido al Presidente della NFL Roger Goodell (che per il 60% degli americani dovrebbe scusarsi con Kaepernick) e definendo Trump un pazzo.
Popovich (un idolo per lo sport americano) si è poi scagliato veementemente contro il razzismo, è stato il primo a farlo in modo diverso, più rabbioso, quasi a rispondere a tono alla valanga di insulti e critiche feroci che in questi anni chiunque criticasse Trump aveva dovuto subire.
Forse che si è dovuto attendere il momento giusto? Questa è un’altra caratteristica dei tempi in cui viviamo. Trump era, è ancora oggi per molti, il simbolo di “Make America Great Again” il Raegan del 2000, l’uomo che ha riportato l’economia americana a pieno regime.
Ma con la crisi Covid-19, la sua gestione terrificante, le bufale, gaffe e l’insorgere di una crisi economica a livello del 1929 e l’aumento della conflittualità sociale è diventato più vulnerabile. Molto più vulnerabile. Non è più favorito per la rielezione, i comizi vanno male, incassa stop dalla Corte Suprema e tribunali su temi e decisioni a suo favore, e quindi è più attaccabile.
Naomi Osaka, ex numero 1 del tennis, quando si è schierata a favore delle proteste su Floyd George, non ha incassato critiche ed attacchi senza dire nulla: ha contrattaccato in modo veemente. Uno dei primi casi: “Se uno lavoro all’IKEA può parlare solo di Gronlid?” è stata la sua efficace risposta.
Gli sportivi del nuovo millennio, i militanti, imparano ad usare i social non solo per dire ciò che pensano, ma per contrattaccare, si sporcano le mani nella misura in cui serve, dal momento che essere passivi di fronte agli attacchi social è ormai visto come un segno di debolezza.
Da ultimo è stato Lewis Hamilton (impegnato da anni contro razzismo e discriminazione) ad affrontare il problema della discriminazione, con un’intervista sul Times dove ha parlato del razzismo che ha dovuto patire per tutta la vita e che patisce tutt’ora chi non è bianco.
In ultima analisi, oggi per uno sportivo fare politica, scegliere da che parte stare appare sempre più una scelta a cui non si può sfuggire, anche a costo di inimicarsi parte del pubblico.
Sia per un discorso di libertà di opinione (sacrosanta) sia per non trovarsi tra l’incudine ed il martello, accusato di menefreghismo o simili. Di certo i social hanno sconvolto il mondo della comunicazione, e sono diventati un’arma a doppio taglio per entrambi i lati del fronte.
Ne è passato di tempo, ne sono cambiate di regole, da quando Alì fermava il tempo al microfono di Howard Cosell…